Per il mio compleanno ho ricevuto in regalo un abbonamento a Netflix, la piattaforma statunitense che offre anche un servizio di streaming online on demand, accessibile tramite un apposito abbonamento.
Tra le varie proposte di film e serie tv, sia italiane che straniere, ci sono anche tantissimi documentari, alcuni dei quali relativi al mondo della moda.
Facendo questo lavoro è naturale che mi piaccia approfondire questo tipo di argomenti, quindi tra una pausa e l’altra, nei ritagli di tempo, cerco di guardarne il più possibile, ed ho pensato che sarebbe carino parlarne anche qui sul blog, approfondire certe tematiche o, perché no, suggerirne di nuove.
Slow fashion movement cos’è e perché vale la pena seguirlo
The true cost – Streaming Italia
The true cost – Parto con l’ultimo che ho visto, perché è stato il più forte a livello emotivo. Vi spiego perché. Per chi della moda ha fatto la sua professione e dà ogni giorno consigli sulle ultime tendenze, su cosa acquistare spesso citando le famose catene low cost e in primis a se stessa (io, chiaro) con l’eterno non ho nulla da mettermi che campeggia sul mio armadio a caratteri cubitali,ogni mattina. È chiaro che affrontare l’argomento sfruttamento del lavoro da parte del “sistema” moda, sia un pugno nello stomaco (con tanto di annessi sensi di colpa).
Lo è a maggior ragione quando quei problemi che sembrano così lontani (solo perché lo sono geograficamente e non li vedi sotto i tuoi occhi), diventano reali. Diventano storie (di dolore) narrate dai diretti interessati. Bangladesh e Cambogia, i due Paesi sotto la lente d’ingrandimento e che vengono particolarmente raccontati in “The true cost”.
Il documentario cerca di analizzare il cortocircuito considerando tutte le variabili: sia sul piano economico che sociale, per raccontarci, offrendoci una visuale il più completa possibile, tutti gli aspetti che collimando hanno portato ad un totale collasso a livello ambientale, etico e sociale del sistema capitalista.
Un sistema al collasso (ambientale ed etico)
Si analizza il sistema del fast fashion è chiaro, come una parte del tutto. Una parte sicuramente importante e di grande impatto, forse più di quanto si possa immaginare.
Lo sfruttamento della manodopera e quindi anche del lavoro a basso costo, fino a quello dell’ambiente.
Salari bassi, zero diritti, condizioni di vita precarie, quello che portò alla morte di 1000 persone con il crollo della fabbrica a Rana Plaza (24 aprile 2013), ma non solo. Quello è forse solo l’esempio più eclatante che ricordiamo (ma lo ricordiamo davvero?), perché per qualche mese ne parlarono i media.
Le grandi aziende, i colossi del fast fashion (ma negli anni abbiamo visto anche come quelle del settore luxury), producono a costi bassissimi, appoggiandosi alle fabbriche locali a cui commissionano per 30 centesimi l’uno persino un milione e mezzo di jeans.
Certo, non ci sono molte alternative, ed un posto in una fabbrica che potrebbe crollarti addosso, dopo che fai turni massacranti è la cosa meno brutta che ti possa capitare, giusto? Probabile. Ma “approfittare” di questo meccanismo non è etico e non ci deve far sentire meglio solo perché non è sotto i nostri occhi, o sulla fabbrica non ci sono grandi insegne direttamente riconducibili a chi richiede i capi a prezzi irrisori e quantità disumane, in tempi strettissimi.
Il problema alla base
Non è facile raccontare, non è facile per me semplificare in un post, perché qui non si tratta di fare moralismi. La nostra economia è fondata sul capitalismo e per ora questo meccanismo non può prescindere. Ma i nostri mari e fiumi sono al collasso e anche noi, continuiamo ad inseguire quest’idea che avere tanto ci possa fare stare meglio ed essere più felici, quando sappiamo bene che spesso arriveremo a casa e neanche apriremo la busta che scoppia di vestiti e che fino a qualche ora fa ci sembravano “necessari”. Perché l’attimo di euforia e di felicità si è esaurito nel momento stesso in cui abbiamo passato il Pos.
La questione, almeno per me, dopo aver guardato questo documentario è, non tanto smettere di comprare, perché diciamoci la verità sarebbe impossibile visti i continui impulsi che riceviamo, ma perlomeno cercare di farlo con maggiore consapevolezza, cercando una via più etica. Comprando anche semplicemente meno. Uno da solo non può cambiare il mondo, ma fare un piccolo passo ciascuno farebbe già una piccola (grande differenza).
Se non lo avete visto e anche voi volete sapere quanto sangue c’è dietro certi capi a pochi dollari, ma anche solo rendervi conto di cosa succede a chilometri di distanza da voi, di come sia difficile la vita di chi ha la nostra stessa età e zero prospettive, vi consiglio di farlo.
Se invece lo avete già visto mi piacerebbe sapere cosa ne pensate anche voi.
Dimenticavo, il documentario e le varie persone per più motivi interpellate, non puntano solo il dito, ma lavorano attivamente per proporci delle soluzioni. E questo fa la differenza come in tutte le cose.
La regia è di Andrew Morgan, è stato prodotto da Livia Firth.
Qui il video trailer
No Comments