Non è facile parlare di rapimento, abusi, prigionia, senza voler ispezionare anche il lato più morboso della vicenda e sentirci toccare nelle viscere da quello che mai nessun essere umano vorrebbe subire, ma che filtrato attraverso lo schermo, a volte, ha quel fascino voyeur a cui molti altri film devono la fama.
Sono andata a vedere Room perché la storia mi ha attratto per la sua potenza emotiva e psicologica. Scoprire come si può sopravvivere a tanto dolore e a tanta sopraffazione, a come la mente umana sia capace di gestire e sviluppare abilità che la portino a cercare soluzioni o motivazioni anche nei momenti in cui sembra impossibile poter nutrire anche la benché minima speranza che possa accadere qualcosa di positivo, che valga ancora la pena vivere.
La storia sembra una di quelle che ci lasciano sgomenti quando passano al telegiornale: una cittadina apparentemente tranquilla, delle villette con il giardino che nascondono tra le mura storie mostruose. Di quelle che la realtà supera la più agghiacciante fantasia. Ricorderete il caso Fritzl
Qui, la sceneggiatura del film è diretta conseguenza di un libro Stanza, letto, armadio, specchio (2010), di Emma Donoghue, la stessa che ha deciso di proporne la versione cinematografica, appunto, prima che ci pensasse qualcun altro e che ha accolto il regista Lenny Abrahamson.
In Room Brie Larson è incredibilmente reale. Tutta la prima parte del film si legge stretta sul suo viso, segnato dalle occhiaie, sfatto, di chi cerca ogni giorno la forza per farcela, per farsi coraggio, per subire, per non lasciarsi morire. Per urlare a squarciagola tutto il dolore anche se nessuno potrà sentire.
Trovare la forza nel frutto di quella violenza bastarda che ti ha rovinato la vita, trovare in lui anche la debolezza nel non aver saputo liberarlo prima, per egoismo o solo per paura.
Trovare poi finalmente il coraggio tutto insieme e affrontare il fuori, il mondo, quello che prima agognavi ed ora, anche se puoi respirarlo a pieni polmoni, ti sembra troppo diverso da prima, da prima di tutto, da prima che quel maledetto giorno la tua vita cambiasse per sempre.
Il Cielo in una stanza, come scritto da Claudio Trionfera su Panorama, qui non ha niente di romantico o poeticamente interessante, sebbene sia distopico scoprire come una volta trovata la libertà quel posto schifoso, che è stato però la tua casa, ti possa in qualche malsano modo mancare.
Questo film è tanto, più di quello che possa apparire guardando il trailer ed il rapporto materno, la forza del legame con un figlio che a volte può essere anche distruttiva, ne è un’ulteriore punto di vista, appendice da cui analizzarne le dinamiche: prima, durante e dopo Stanza.
Brie Larson che nel film interpreta Ma’ (Joy) ha vinto l’Oscar come migliore attrice ed il piccolo Jack, nel film, il talentuosissimo attore Jacob Tremblay, per alcuni avrebbe già meritato una nomination e sono pienamente d’accordo, questo bambino ha “fatto” buona parte del film e non è stato secondario alla bravissima Brie, un vero peccato non premiarne l’incredibile talento.
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