Tra qualche giorno, il 24 aprile, sarà il tristissimo anniversario del crollo di Rana Plaza un edificio tessile di otto piani a Dacca, che è costato la vita a 1129 persone.
È considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia. Proprio per questo ho deciso di parlarvene sia qui che nel podcast TheVisual.
La storia del crollo di Rana Plaza
L’edificio conteneva alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. Ai lavoratori fu infatti ordinato di tornare il giorno successivo, i manager minacciarono addirittura di trattenere un mese di stipendio ai lavoratori che avessero rifiutato di tornare al lavoro.
Il giorno dopo – come in una profezia che si autoavvera – l’edificio ha ceduto, collassando durante le ore di punta della mattina.
La metà delle vittime del crollo: donne e bambini
Più della metà delle vittime erano donne, insieme a un certo numero dei loro figli che erano negli asili-nido aziendali presenti all’interno dell’edificio. Diciassette giorni dopo il crollo, fu salvata, quasi illesa, dalle macerie una donna di nome Reshma, e questo è l’unico miracolo di questa storia.
Sono tanti i marchi internazionali che producevano in quegli stabilimenti. E non è difficile capire quali, basta leggere le etichette dei nostri capi che riportano spesso made in Cambogia, Bagladesh, Cina. Posti in cui il costo del lavoro è bassissimo, le norme e la protezione dei lavoratori quasi inesistenti.
Business verso etica: cosa possiamo fare noi?
Se pensiamo in ottica del business è “normale” pensare al profitto e poi, lontano dagli occhi, lontano dal cuore, no? Non vedere certe brutture, certe condizioni di schiavismo moderno, trincerarsi dietro la frase, in quei posti le condizioni di lavoro solitamente sono anche peggiori, fa sì che molti girino la testa dall’altra parte. Compresi noi.
Però, non possiamo dare la colpa solo alle aziende. Anche noi pensiamo solo al nostro tornaconto quando acquistiamo capi a prezzi stracciati, quando riempiamo i carrelli ogni settimana non pensando a quanto quell’acquisto con reso costi non solo a livello di produzione senza orari e quindi senza rispetto per i lavoratori, ma anche a livello ambientale.
Il Gange, considerato un fiume sacro dell’India, è uno dei più inquinati al mondo, perché in questi posti in cui la povertà e la corruzione politica sono la quasi normalità non ci sono regole neanche per gli sversamenti dei rifiuti chimici delle aziende Ma quel fiume che ci sembra così lontano, ha in realtà ripercussioni anche sul nostro stile di vita, su ciò che mangiamo. Quindi sostenendo questo tipo di economia, nel lungo periodo, nessuno ci guadagna davvero.
Perché guardare il documentario The true cost
Se volete approfondire questo argomento vi consiglio di guardare il documentario The true cost, una volta era su Netflix, ora dovete cercare un po’ on line per trovarlo, ma a me è servito tanto per aprire gli occhi.
Con questo non voglio demonizzare il fast fashion, oltre al fatto che non sono solo le aziende di fast fashion a produrre nei paesi poveri per convenienza, ma far sì che nel momento in cui noi come compratori, cambiamo il nostro modo di acquistare, anche le aziende cambieranno il loro modo di produrre, o perlomeno troveranno un modo per diventare meno impattanti e crudeli con quella parte di mondo che non può permettersi di rinunciare ad un giorno di lavoro, anche a costo della propria vita, come è successo al Rana Plaza.
Leggi anche: come evito il fast fashion da due anni
Un passo alla volta ma si può fare già tanta differenza.
Il minimalismo è uno stato mentale, un approccio alla vita e non solo alle cose materiali, ne parleremo insieme puntata dopo puntata nei prossimi podcast. Ti aspetto su The Visual
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